Mentre il referendum mostra di aver richiamato alle urne almeno il 90% dei suoi lavoratori, per ciò che concerne Alitalia è impossibile non sottolineare come una possibile nazionalizzazione della società in caso di fallimento della trattativa sia da rigettare totalmente.
Il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio è categorico: non vi sono alternative all’accordo e non vi è possibilità di nazionalizzazione. E’ vero, la ricapitalizzazione da 2 miliardi di euro prevede molti sacrifici da parte dei lavoratori, ma è attualmente l’unica possibilità che si ha per evitare il tracollo e conseguenze ancora peggiori. Perché è inutile girarci intorno: una svendita di Alitalia al migliore offerente lascerebbe ancora più persone a casa.
E non c’è spazio per l’ingresso diretto dello Stato nel capitale della società, oggi controllata del gruppo degli Emirati arabi uniti Etihad e dal consorzio Cai, di cui fanno parte tra gli altri Banca Intesa e Unicredit. L’Italia come stato non può permetterselo, né dal punto di vista economico né da quello politico, a prescindere dalle richieste dei principali sindacati ovvero Usb e Cub: 6 miliardi bruciati in tal senso fino ad ora parlano da soli. A prescindere da quelle che possono essere state le opinioni espresse da alcuni movimenti politici. Quel che è necessario comprendere è che in un’azienda i soci non sono dei benefattori ma persone che vogliono vedere utili e non perdite: si tratta di investimenti non di beneficenza.
Se vincerà il si al referendum il consiglio d’amministrazione di Alitalia si riunirà mercoledì 26, avviando la promessa ricapitalizzazione da 2 miliardi di euro che dovrebbe dare fiato a tutti per almeno due anni, in caso di vittoria del no il cda avrà luogo direttamente domani con possibile uscita dei soci e avvio delle procedure di amministrazione straordinaria con ciò che ne consegue.