Il governo, tramite il Ministero dello Sviluppo Economico, vuole convocare un tavolo per la firma di un protocollo di intesa per mettere un tetto del 20% ai call center delocalizzati all’estero. In questo modo si recupererebbero circa 20 mila posti di lavoro, oggi volati oltre i confini nazionali. La CGIL parla però di meri spot elettorali, mentre per gli altri due sindacati principali, Cisl e Uil, si concentra l’attenzione su un settore completamente abbandonato. La divisione è nella natura volontaria e generica dell’impegno da sottoscrivere con le aziende coinvolte, tutte dei settori telefonici, energetici, assicurativi, bancari e altri settori nati con la nuova tecnologia. Il protocollo vorrebbe un impegno da parte delle aziende interessate, di un traffico di chiamate interne in call center localizzati sul territorio italiano, un impegno non vincolato che nella bozza offre anche criteri di trasparenza. Tra le richieste, la certificazione linguistica per i lavoratori stranieri, chiarezza e risposte adeguate, rispetto delle normative vigenti sulla protezione dei dati. Il 100% dei call center del mercato italiano dovrà essere sul territorio di casa nostra, con l’80% di outsourcing. Nessun re-indirizzamento dunque, per chi aderisce all’intesa. Attualmente i call center italiani impiegano circa 85mila persone, mentre 25mila sarebbero gli impiegati all’estero, molti dei quali albanesi, rumeni, polacchi, croati, tunisini e marocchini, nei rispettivi paesi di nazionalità.