L’85% delle imprese italiane, circa un quarto delle quali a guida over 70, è a gestione familiare ma solo una su dieci ha predisposto un piano di transizione. Non solo: la struttura di governance soffre di diversi errori valutativi e operativi, che fanno sì che poche aziende riescano a sopravvivere al passaggio verso la seconda e terza generazione. L’allarme anticipato a gennaio dai dati dell’Osservatorio AUB è stato lanciato questo ottobre da uno studio Deloitte. Studio che siamo andati ad approfondire assieme allo Studio legale Borelli, partner de IlSole24 Ore e professional designato da Forbes tra i migliori 2021 e 2022.
Minacce alla continuità
Il nodo principale di questa situazione si trova in quello che l’avvocato Paolo Borrelli chiama “il patrimonio socio-emotivo”. L’insieme, cioè, dei fattori non economici che condizionano il processo decisionale – come, per esempio, l’identificazione della famiglia nell’azienda o l’eredità. E che mischiano le motivazioni valorial-affettivi con quelle finanziarie e d’impresa:
- confondendo l’appartenenza alla famiglia con la competenza;
- inserendo nei Consigli di Amministrazione soltanto membri della famiglia proprietaria;
- sovrapponendo i tavoli familiari e gestionali, dunque i ruoli di proprietà, governo e direzione;
- non formando le generazioni successive o limitando la loro innovazione;
- reclutando figure esterne non in base a capacità e risultati bensì alla fiducia “affiliativa”.
Soprattutto, considerando la trasmissione un evento singolo (per esempio, in caso di decesso del leader familiar-aziendale) e non un processo – lo sguardo più al passato e agli obblighi che non al futuro e alle opportunità. Pur sapendo che ci vogliono circa 30 anni per formare una generazione alla completa assunzione della responsabilità gestionale. E pur volendo che l’azienda rimanga proprietà di famiglia, come oltre il 60% dei leader dichiara.
Per non parlare della realtà delle giovani generazioni, Y (Millennials) e Z. Fatta da inverno demografico, emigrazione, difficoltà di accesso al credito, diversa visione e diverse competenze. Realtà che ci porta oggi a contare 3 milioni di under 34 in meno, mai nati o partiti negli ultimi 20 anni, e ancora troppi disoccupati – anche quando ben istruiti – mentre i vertici delle imprese familiari lamentano l’indisponibilità o l’insufficiente preparazione dei figli e dei nipoti.
Cosa fare
Parliamo della quasi totalità delle imprese italiane, il 65% delle quali con un fatturato di oltre 20 milioni di euro. Secondo il 71% dei leader, aziende solide proprio grazie alla loro natura familiare e dunque – come si evince dai dati dell’Osservatorio AUB – in grado di reagire molto bene agli imprevisti (come il biennio pandemico) e alle incertezze congiunturali.
Un quadro economico-finanziario ancora stabile e persino resiliente ma che potrà mantenersi ancora per qualche anno soltanto al patto di mettere mano al passaggio generazionale, prima possibile e meglio possibile. Come? Secondo l’avvocato Borrelli:
- affidando il processo a un solo professionista competente, in modo da gestire la transizione con una visione unitaria di tutti gli aspetti da considerare;
- adottando le buone pratiche delle imprese familiari con le migliori performance, a cominciare dal modello di governance (separando i tavoli familiari e gestionali, individuando i ruoli secondo capacità e risultati, aprendo il Consiglio di Amministrazione a figure competenti esterne alla famiglia proprietaria e formando le generazioni alle quali passare il testimone);
- predisponendo un piano condiviso e soprattutto “elastico”, adattabile all’evoluzione del processo, che preveda anche il “protocollo d’intervento” in caso di situazioni di crisi;
- tecnicamente parlando, lasciando libera una parte del patrimonio (anche per poter liquidare i soci non interessati o non performanti) e valutando la possibilità di frazionarlo tra i familiari, in modo da ridurre il rischio in caso di decesso improvviso di uno dei membri.
E, beninteso, evitando gli errori elencati sopra. Con un incoraggiamento in più: quando formate e inserite a dovere, le generazioni seconde e terze risultano ottenere performance migliori di quelle dei fondatori. La spiegazione? Il loro diverso patrimonio socio-emotivo, un po’ più “distaccato”, e il loro diverso approccio alla governance – che le porta a prendere decisioni più razionali e orientate alla crescita aziendale. In un Paese che si regge sulle imprese familiari, una prospettiva da considerare al più presto.