Si tratta del contratto regolato dal decreto legislativo 276/03 con il l’intento teorico di limitare l’uso di quelle collaborazioni coordinate e continuative (co.co.co), che avvalendosi di un ridotto costo del lavoro nella sostanza mascherano rapporti di lavoro dipendente. In realtà anche la nuova norma, senza un adeguato intervento della contrattazione collettiva, consente di celare dietro a un contratto a progetto un rapporto di lavoro dipendente a tutti gli effetti. Il progetto è un’attività (anche produttiva) identificabile e collegata a un risultato. Può essere connessa a un’attività accessoria, ma anche principale dell’impresa.
Di fatto le co.co.co. non sono state abrogate, ma continuano ad essere ammesse in specifici casi: nel settore pubblico, nelle professioni intellettuali, per gli amministratori di società, per i partecipanti a collegi e commissioni, per coloro che percepiscono pensione di vecchiaia, per collaborazioni rese ai fini istituzionali per società sportive, per prestazioni nei limiti di 30 giorni e 5 mila euro annui.
Ma cosa cambia sostanzialmente nel contratto a progetto? Il contratto deve indicare: la definizione del progetto, la durata della prestazione, il corrispettivo o i criteri per la sua determinazione, le forme di coordinamento tra collaboratore e committente, le eventuali misure a tutela della salute e sicurezza. In caso di gravidanza, di malattia e di infortunio del collaboratore, il rapporto di lavoro risulta sospeso, senza erogazione del corrispettivo. Solo nel primo caso la durata del rapporto è prorogata (per un periodo di 180 giorni), mentre, negli altri due casi, non solo il contratto non è prorogabile, ma il committente può comunque recedervi se la sospensione si protrae per più di un sesto della durata stabilita dal contratto, oppure superiore a trenta giorni per i contratti a durata determinabile.
A pagare il prezzo di queste leggi che vanno e vengono sono soprattutto le giovani generazioni. Ormai i contratti a progetto sono all’ordine del giorno: osa si può fare se il contratto a progetto, nei fatti, maschera un rapporto di lavoro subordinato? Ogni volta che le concrete modalità di svolgimento di un rapporto formalmente a progetto sono riconducibili al lavoro subordinato, il lavoratore ha diritto, nel corso o all’esito del rapporto di lavoro, di richiedere l’accertamento giudiziale dell’effettiva natura del rapporto stesso; ciò significa che ci si può rivolgere al giudice e se, nel caso di specie, sussistano gli indici della subordinazione elaborati dalla giurisprudenza (inserimento organico nella struttura imprenditoriale, assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, obbligo di rispettare un orario di lavoro, obbligo di concordare permessi e ferie, ecc.). Nel caso in cui il Giudice accerti che il rapporto, sebbene qualificato come autonomo, ha in realtà natura subordinata, lo dichiarerà tale. Il lavoratore potrà quindi rivendicare tutti i diritti conseguenti sia di natura retributiva sia di natura contributiva. Quanti di voi lettori si sono rivolti al giudice perché il proprio contratto a progetto in realtà celava un rapporto di subordinazione? E soprattutto quanto tempo è occorso affinchè il vostro rapporto fosse dichiarato di subordinazione? I tempi della giustizia italiana si sa sono non lunghi, ma lunghissimi…
Salve,
la presente per segnalare questa iniziativa per l’abolizione del contratto a progetto
http://www.petitiononline.com/cocopro/petition.html
Cordiali saluti.