Se c’è un modo per capire quando un paese è davvero in crisi economica, questo è sicuramente rappresentato dal fallimento delle sue imprese: e in effetti, come rilevato dal Cerved Group, le chiusure e i fallimenti di aziende nel nostro paese sono aumentati di 7,4 punti percentuali nel corso del 2011, con più di dodicimila entità coinvolte. Si tratta di un vero e proprio boom, tra l’altro si sta parlando di un record in termini numerici da quando è stata riformata la disciplina fallimentare circa cinque anni fa. Nel 2005, infatti, alle varie procedure di fallimento potevano essere ammesse anche le cosiddette “microimprese”, dunque in quell’anno fu toccato un livello davvero molto alto, ma influenzato dai testi normativi allora in vigore.
Stavolta, poi, bisogna preoccuparsi sul serio, dato che le imprese fallite sono di maggiori dimensioni e questo vuol dire che i costi da sostenere per quel che concerne i posti di lavoro sono davvero elevati. In aggiunta, occorre anche tenere conto della ricchezza che non è stata prodotta. D’altronde, si tratta di un fenomeno che non guarda in faccia proprio a nessuno: esso ha riguardato in maniera indistinta sia le società di capitali che quelle di persone, nonostante nel primo caso ci sia stato un incremento percentuale decisamente maggiore (8,6% contro il 4,7%). Le pmi hanno risentito in maniera piuttosto negativa di questa situazione, in particolare quelle che possono vantare un attivo non superiore ai dieci milioni di euro.
Inoltre, se si vuole analizzare ancora più nel dettaglio questo trend, ci si accorge che i servizi e le costruzioni (edilizia in primis) sono i due settori con gli aumenti più pericolosi di fallimenti. Lo stesso discorso vale anche per la filiera auto, mentre la meccanica, la chimica e la siderurgia hanno tenuto bene. Infine, bisogna anche sottolineare che i fallimenti sono stati meno numerosi nelle regioni del nord-est, con valori molto simili a quelli del 2010.
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